Generazione di citrulli (Javier Marías, La zona fantasma, 30 aprile 2017)

Ho un ricordo vago di una vignetta di Forges che probabilmente ha più di vent’anni. La scena rappresentava una cosa del genere: un bambino, in spiaggia, sta per tagliare la mano a un bagnante addormentato con un paio di forbici enormi; qualcuno avverte il padre della creatura: -“Faccia attenzione, glielo impedisca, faccia qualcosa”- al quale questi risponde convinto: “No, che poi si sente frustrato”. Vent’anni fa questo modo di “educare” i bambini si era già radicato. Di viziarli fino alla nausea e di non proibirgli mai niente; di non sgridarli perché non rimangano male o si sentano infelici; di iperproteggerli e lasciarli agire inseguendo i loro capricci; di permettergli di vivere in una campana di vetro dove i desideri si avverano; di fargli credere che la loro libertà è totale e la loro volontà onnipotente o quasi; di tenerli lontano da qualsiasi paura, perfino da quella istruttiva e preparatoria della finzione, adeguatamente espurgata da ciò che è minaccioso e “sgradevole”; di abituarli in malo modo a un mondo che non ha niente a che vedere con quello che gli attende non appena usciranno dal guscio della sempre più prolungata infanzia.

Sì, da tanto questa piaga pedagogica ci affligge che molti di quei bambini sono oramai ragazzi o adulti cresciuti, e così ci ritroviamo con generazioni di cretini che per di più sono in aumento. Non è nuovo, infatti, l’atteggiamento insolito di troppi adolescenti che, non appena si sviluppano e diventano tipi alti e forti (avrete osservato per le strade quanti ragazzi hanno un’aria da citrulli), picchiano i professori perché questi li mandano fuori dalla classe o perché li sospendono; o picchiano i loro genitori perché non li assecondano in tutto o tentano di esercitare un minimo di autorità, tardi e invano. Ma vabbè, con gli adolescenti c’è ancora possibilità di sperare. È un’età difficile (e odiosa), è possibile che una volta superata migliorino e si moderino. Ciò che è grave ed esasperante è che sono ormai molti gli adulti –molti di loro sono genitori- che si comportano allo stesso modo o persino peggio. E da tempo leggiamo notizie o inchieste che ci informano di padri e madri che picchiano i professori perché questi hanno castigato il loro rampollo per aver ricevuto un pugno da parte dell’angioletto; o che aggrediscono medici e infermiere se ritengono di non essere stati assistiti come si deve. Alcune settimane fa abbiamo appreso di risse di genitori nei campi da calcio dove i loro figli si allenano per diventare dei Messi o dei Cristiano Ronaldo: botte ai poveri arbitri, risse feroci fra questi puerili genitori-tifosi, minacce agli allenatori per non mettere in campo i loro presunti portenti. In quei giorni in televisione si parlava del caso del padrone di un cane da presa (sono una specie pericolosa, i padroni che adorano i propri animali) che un signore ha rimproverato per non tenerlo al guinzaglio. La risposta del padrone è stata furibonda: lo ha messo kappaò e, una volta a terra, lo ha preso a calci ovunque, testa compresa, e lo ha mandato all’ospedale, niente di meno. E ci sono deputati cresciutelli che indossano magliette con la stampa di un “martire” correligionario che ha pestato un socialista e che per questo è stato condannato.

Vi sarete resi conto che oggi far notare a qualcuno una cosa che non va bene o che disturba gli altri, o per una infrazione stradale, equivale a scommettersi la testa. (Per non dire se si difende una donna che viene maltrattata o, detto brutalmente e in modo chiaro, gonfiata di botte). È frequente che il trasgressore, colui che commette un sopruso o non lascia dormire i vicini, invece di rifletterci su e scusarsi, vada in collera e tiri fuori un coltello o una chiave inglese contro il cittadino civile che si lamenta. Mia nipote Clara, mesi fa, ha commesso l’”errore” di chiedere educatamente ad una donna di abbassare un po’ il volume dell’assordante musica che obbligava a sorbirsi ai passeggeri di un autobus: se l’è vista brutta, non solo con la donna, ma anche con gli altri passeggeri, bestie tanto quanto la donna. Il conducente, ovviamente, è sparito all’istante, come fanno anche gli agenti della polizia municipale di Madrid quando si trovano di fronte a dispute dalle quali prevedono di uscire malconci. Tutti si piegano di fronte al bullismo che prevale. È  comprensibile nei cittadini. No negli agenti di polizia e nei vigili urbani, perché vengono pagati per proteggere le persone pacifiche e attente agli abusi di chi è violento e irascibile.

Com’è che ci sono tanti uomini e donne maggiorenni e vaccinati che si comportano da tangheri? Ho paura che si tratti dei coetanei, oramai cresciuti, di quel bambino di Forges.  Persone che mai, durante la lunga infanzia, sono state contraddette né è stato messo un freno al loro dispotismo. “Faccio quello che mi pare e piace e nessuno mi venga con richieste, di abbassare il volume o di tenere al guinzaglio il mio cane-killer”. Siccome questo modo di “educare” continua a prevalere e si spinge oltre (c’è chi sostiene che i bambini dovrebbero essere “completamente liberi” dal giorno in cui nascono), preparatevi ad un paese nel quale tutte le generazioni saranno dominate da citrulli iracondi e sregolati. Francamente, non fanno venir voglia di arrivare vivi a quel futuro.

© Javier Marías

https://javiermariasblog.wordpress.com/2017/04/30/la-zona-fantasma-30-de-abril-de-2017-generaciones-de-mastuerzos/

Traduzione di Daniele Pradetto Coccolo

Quindicesimo (Javier Marías, La zona fantasma, 23 aprile 2017)

Mentre scrivo questo articolo, sono passati solo quattro giorni da quando ho concluso un nuovo romanzo. 576 pagine della mia vecchia macchina Olympia Carrera de Luxe, la quale, temo, sta per spirare dopo il tour de force a cui l’ho sottoposta (ogni pagina battuta in media almeno tre volte). Comincia a perdere colpi, e se non riesco a rimpiazzarla smetterò di scrivere, immagino: a questo punto della mia vita mi vedo incapace di passare al computer, di rinunciare alla carta e alle correzioni a mano con penna stilografica per ogni versione di ogni pagina. Con questo strumento ormai arcaico, mando avanti anche questi pezzi domenicali, che subiscono un simile trattamento di revisione e rettifica. Ringrazio chi mi dà lavoro perché mi permette ancora di consegnare un prodotto che richiede più impegno del solito. Sicuramente se fossi un giovane meritevole mi manderebbero a quel paese e mi direbbero: “Bello, prenditi un computer, cosa credi, di vivere ancora nel ventesimo secolo?”

In altri no, ma da questo punto di vista faccio fatica a vivere nel ventunesimo secolo. Il mio primo romanzo si pubblicò nel remoto 1971, quando avevo diciannove anni. Nel lunghissimo periodo trascorso da allora, non si può dire che ne abbia scritte tanti: quello appena concluso è il quindicesimo, se considero tre i volumi de Il tuo volto domani, che uscirono nel 2002, 2004 e 2007. Formano un’opera unitaria, ma per me ciascuno ha richiesto lo sforzo di un romanzo a sé. Insomma, pubblico in media uno ogni tre anni. Se faccio un confronto con i maestri del passato e del presente (e ovviamente con chi non lo è stato né lo è), sono un romanziere che tende a scarseggiare.

Forse è per questo motivo, perché ci dedico molto tempo, e anche perché non so se ce ne saranno altre in futuro, concluderne uno mi provoca stati d’animo contrastanti. Quello immediato e prevalente è l’incredulità: “Ce l’ho fatta a porre fine a tutto questo? Se prima tutti questi fogli erano in bianco…”. In questo caso, sono passati venticinque mesi dalle dubbiose linee iniziali. Per più di due anni ho convissuto -non quotidianamente, magari- con dei personaggi nuovi all’inizio e che alla fine sono diventati più che amicizie. Anche se uno non si siede davanti alla macchina da scrivere -e sono molte le giornate nelle quali è impossibile farlo, dovuto a viaggi o faccende varie-, per tutto il tempo della composizione gli ronzano attorno incessantemente. Uno pensa a loro con maggior intensità che alle persone reali che lo circondando: di queste ultime non ne sta raccontando la storia, né ci partecipa con lo stesso grado di vicinanza, e naturalmente è privo di capacità decisionale sulle loro vite, che invece sì possiede sui suoi personaggi di finzione, per recuperare la vecchia formula. Così congedarsi da loro è in un certo senso un cataclisma personale. “Ma come?”, uno si chiede, “adesso ho perso questi amici? Non devo più occuparmi di loro, non devo guidarli tutti i giorni? Qui li abbandono e qui mi abbandonano? Se non muoiono, non mi interessa ciò che ne sarà di loro?” Sì, mi interessa, ma forse no sono ai possibili lettori futuri; che potrebbero stancarsi, o del fatto che le migliori storie sono quelle che non si raccontano per intero, non da cima a fondo.

E lì comincia il sentimento ambiguo che segue: mentre uno scrive (parlo sempre per me, ovvio) non prende molto in considerazione ciò che agli altri risulta evidente: lo fa perché venga letto. È così evidente, che uno quasi lo ignora. Tuttavia, una volta che si è messo il punto finale, l’idea ricompare assieme a tutte le sue conseguenze: “Non solo mi congedo da questi amici, ma tra alcuni mesi queste creature che mantenevo rinchiuse e che nessun altro conosceva, diventeranno amici di persone che nemmeno ho visto, dei gentili lettori che si scomoderanno ad aprire questo libro”. La prospettiva è strana. Proprio in questo momento, la mia prima e forse miglior lettrice ha già letto 200 di quelle 576 pagine. Poco alla volta sa che cosa ho avuto tra le mani in questi ultimi due anni. Che cosa ho concepito, che cosa ho tramato, che cosa mi ha preoccupato, mi fa qualche commento su una situazione o un personaggio; che cosa ho pensato e come mi sono astratto. Per chi ha custodito tutto questo in segreto, è inquietante. Ma è anche una gioia. Il destino più triste per un romanzo è che a nessuno venga la minima curiosità di leggerlo. Magari allora che queste “creature dell’aria” (come in modo opportuno le chiamò Savater molto tempo fa) riescano a farsi innumerevoli nuove amicizie, anche se io non sarò invitato alle feste private che terranno con ciascun lettore attento. Mi rimane la “consolazione” che, come ora ho recuperato personaggi de Il tuo volto domani, forse un giorno tornerò a incontrare Berta Isla. Il titolo non è ancora stato deciso, ma potrebbe essere questo, Berta Isla, per inserirmi in una lunghissima e spesso nobile tradizione: quella di Jane Eyre, Anna Karenina, Oliver Twist, David Copperfield, Madame Bovary, Robinson Crusoe, Tess de los d’Urberville, Eugénie Grandet, Tom Jones, Tristram Shandy, Moll Flanders, Daisy Miller, Jean Santeuil e tanti altri titoli memorabili. Ahi, se solo bastasse  questo per avvicinarsi un poco a loro…

© Javier Marías

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Traduzione di Daniele Pradetto Coccolo

Bestia ferita (La zona fantasma, 11 gennaio 2015)

Bene, dunque ci troviamo già in anno di elezioni. I tre anni passati dalle ultime elezioni generali pesano come sette o otto, tanto sono stati penosi per la maggior parte della popolazione e tanto si è fatto notare il governo (in quanto è funesto), con la sua maggioranza assolutissima, la sua mancanza di scrupoli e di visione della realtà. Zapatero dà l’impressione di appartenere a un vago passato remoto, e non è tanto che reggeva -è un modo di dire- i destini della nazione. Risultano lontani anche i mille anni nei quali ETA ammazzava, e si fermò quando ancora quel presidente alloggiava nella Moncloa (palazzo sede delle residenza del Presidente del Consiglio spagnolo, N.d.T.). Erano una legione coloro che avevano bisogno di una scorta, e adesso è difficile assegnare missioni o incarichi a quelle guardie del corpo che impedirono tante morti. L’epoca nella quale i politici più catalanisti non erano in preda a un virus contagioso e smisurato, si è persa nella notte dei tempi: tre anni di fervore patriottico, sordo a qualunque ragionamento e proclive a fantasie oniriche ispirate alle valli di Sette spose per sette fratelli, Brigadoon e Orizzonte perduto (cioè, Shangri-La), diventano eterni anche per la più entusiasta portatrice di virus, la signora Forcadell (attivista politica per l’indipendenza della Catalogna, N.d.T.), che starà chiedendo a squarciagola una cura a base di riposo. Ciò che è anteriore a questi tre anni è sfumato, tra le nebbie, sembra antidiluviano e irreale.

All’improvviso, tuttavia, di fronte alla prospettiva di eleggere nuovamente i rappresentanti, cominciamo a svegliarci dalla strana trasognatezza. “Possiamo cambiare”, ci diciamo con una certa sorpresa. “Vi ricordate che non sempre abbiamo vissuto sotto il bastone di Rajoy, che non sempre fu così?” Se questo succede a noi cittadini, si potrebbe garantire che con maggiore motivo e previsione dovrebbe succedere ai partiti, che, se non un modello di società, si giocheranno lo stipendio dei loro deputati, senatori, ministri, presidenti delle Autonomie, consiglieri e assessori. Potrebbero ritrovarsi con molti di loro in disoccupazione, con l’obbligo di trovare loro una “occupazione”, magari in Europa o nell’azienda privata ex pubblica, mediante le cosiddette “porte girevoli”, perfettamente oliate nel nostro paese (Spagna, N.d.T.). Il disturbo psicologico ha conseguenze anche peggiori. Si sa che coloro che perdono un incarico si sentono esterrefatti e depressi per lungo tempo. Non riescono a capacitarsi del fatto che i telefoni non squillino più per chiedere loro favori, che non ci sia un’ auto che li aspetta, che non vengano invitati da nessuna parte, che nessuno compri loro ciò di cui hanno bisogno, che i loro ordini vengano sentiti solo dal proprio marito o dalla propria moglie. Nei migliori dei casi rimangono in uno stato beatifico e assorto; nel peggiore dei casi, respirano risentimento e maledicono l’incomprensione e l’ingratitudine della gente. Vanno avanti senza rendersi conto che in quei giorni gloriosi erano richiesti non per la loro irresistibile personalità, ma per il posto che occupavano (eccetto famiglia e parenti, è ovvio, sempre che non si fossero già rotti le scatole).

Perciò viene da guardare in primo luogo chi ha ancora più potere, il Governo e il suo partito. Non posso dire niente di buono, lo sapete già fin troppo, ma come cittadino mi assale una grande preoccupazione osservando come fanno fronte a questo 2015 di cambi forzati. Se una cosa è certa è che il PP (Partido Popular, N.d.T.) non otterrà la maggioranza assoluta, e la cosa più logica da fare sarebbe cercare di perdere il meno possibile, attenuare il colpo che senza dubbio prenderà nel confronto. E ciò che si nota sono, al contrario, pulsioni suicide tra i suoi dirigenti. In questo momento il PP sembra un animale messo alle strette, una bestia ferita, e sappiamo quanto queste diventino pericolose. Invece di gettare un ponte, rettificare dannose misure economiche e politiche, cercare di non infondere paura (più paura) all’elettorato moderato per frenare le diserzioni, si arrocca in posizioni più autoritarie e di estrema destra. Non si fa carico della corruzione contagiosa; vengono messi innumerevoli ostacoli per accedere ai dati sui politici; si nomina un nuovo portavoce ancora più cinico del precedente, un individuo che assente (lo si vede sempre fare cenno di sì ad ogni starnuto di Rajoy nell’emiciclo) e maleducato (non perde occasione di scodellare qualcosa di offensivo a chiunque non assenta con tanti cenni del capo come fa lui).

Poiché i precedenti amministratori di TVE (Televisión Española, N.d.T.) non erano sufficientemente abbietti per il Governo, ne colloca altri provenienti da TeleMadrid come ricompensa per aver fatto a pezzi e rovinato questa catena. Il risultato sono dei telegiornali grotteschi che imbarazzano solo a guardarli, faziosi, che censurano e ricordano il No-Do(1), pieni di avvenimenti e inchieste “pittoresche” che non contengono nessuna notizia. Poi obbliga il Procuratore Generale(2) Torres-Dulce a fare le valigie, uomo -questo almeno- che ha appreso la dignità dai westerns di Ford, Hawks, Mann e Walsh, mettendo così fine a qualsiasi traccia di divisione dei poteri. Approva in Parlamento la cosiddetta “Ley Mordaza”(3), della quale mi occupai ampiamente quando si conobbe il disegno, in una colonna intitolata “Neofranchismo”, credo, riprodotta in quotidiani stranieri e provocando la vergogna del Ministero dell’Interno e di Rajoy. Ma a loro non importa allontanare da sé la gente, esacerbare la loro collera e la loro esasperazione; a loro non importa niente perdere voti tra quelli che già hanno perso in pectore, e ne sono tanti. Sembra che non discernano il futuro vicino e corrano verso il precipizio. Forse è nel loro sangue, non possono farne a meno. O forse vogliono morire uccidendo. Se così fosse, proteggetevi e mettevi bene al riparo, perché l’anno è ancora lungo, e può fare vittime.

© Javier Marías

(1) No-Do: Notiziario che si faceva vedere nei cinema spagnoli prima della proizione dei film tra gli anni 1946 e 1976, ossia durante la dittatura franchista.

(2) Fiscal General: non è esattamente como il Procuratore o Pubblico Ministero italiano. Si avvicina di più alla figura dell’Avvocato Generale (Avvocatura di Stato).

(3) Si può tradurre con Legge Bavaglio.

https://javiermariasblog.wordpress.com/2015/01/11/la-zona-fantasma-11de-enero-de-2015-fiera-herida/

Traduzione di Daniele Pradetto Coccolo

Le donne sono più giovani (La zona fantasma, 4 gennaio 2015)

È tanta la gente che oggi va in giro con le orecchie tappate, dagli auricolari o dalla voce che strilla loro dal proprio telefonino, che si perde una delle cose che mi sono sempre piaciute: frasi proferite a metà o stralci minimi di conversazioni che uno sente involontariamente al suo passaggio. Se uno non rizza le orecchie a proposito né adatta la sua camminata a quella dei passanti loquaci -e questo non mi sembra bello farlo: è pettegolezzo- ciò che gli giunge è molto poco: in un dialogo scritto riempirebbe solo due o tre linee. A chi è solito immaginare quisquilie, risulta tuttavia sufficiente per farsi un’idea della relazione tra i due interlocutori, o rappresentarsi un abbozzo di racconto o storia. Alcuni giorni fa, percorrendo Postigo de San Martín (strada di Madrid, N.d.T.), sentii una di quelle raffiche volanti che mi fece sorridere e mi rimase impressa in testa. Passai vicino a tre donne che probabilmente si stavano congedando, ferme vicino a un negozio di cioccolata, se non ricordo male. Erano di mezza età, senza dubbio avevano già passato i cinquanta, anche se non ebbi il tempo di soffermarmi sul loro aspetto. Una di loro disse: “Che bene che stiamo noi donne!”. Un’altra rispose veloce: “Ah! Come hai ragione”. E la terza chiosò: “E ce la passiamo alla grande”. Io continui a camminare, questo fu quanto. Ma captai bene il tono, e non era forzato, ma compiaciuto, non era che stessero tentando di convincersi di ciò che dicevano, bensì ne erano pienamente convinte e ne erano contente, come se avessero siglato verbalmente il fatto di essere state bene quel poco tempo passato assieme. Non so bene il perché, ma mi misero di buon umore e mi piacquero.

Sarebbe difficile sentire questi stessi tre apprezzamenti in bocca a degli uomini, tanto più a signori in età simile. Sarebbe strano che si lodassero così tanto sul sesso (“Che bene che stiamo noi uomini!”), perfino che ridessero così apertamente e con voglia come quelle tre signore simpatiche e così coscienti delle loro enorme fortuna. La fortuna di poter divertirsi con le amiche, di condividere il divertimento e una chiacchierata, con una specie di giovanilismo naturale, non forzato né impostato, irriducibile. È una vita che osservo che non ci sono troppe donne amareggiate né eccessivamente melanconiche. Ovvio che ci sono le odiose, e in politica abbondano. Ci sono quelle che si sforzano di perdere qualsiasi traccia di umorismo e mostrarsi dure; ci sono quelle con il dente avvelenato, velenose e malvagie (una legione quelle della televisione); tiranniche e brute, zotiche o di un’antipatia da far gelare il sangue; ci sono anche quelle insopportabilmente languide, che hanno optato per passare la vita come sofferenti eroine romantiche. Lungi da mia intenzione è fare una lode indiscriminata e adulatrice, ci sono donne di una crudeltà estrema e ci sono quelle tanto idiote quanto l’uomo più imbecille. Ma, dopotutto, e a dispetto del fatto che oggi tenda a proliferare il tipo serio e severo, la maggior parte possiede un buon carattere, per non dire piacevole. Ogni volta che vedo coppie sposate di una certa età, penso che sarà meglio che muoia prima il marito, perché conosco abbastanza vedovi desolati e che non alzano la testa mai, che si distolgono dal mondo e si lasciano andare e si gonfiano, che perdono la curiosità e la voglia di continuare a imparare, che diventano solo questo, dei “poveri vedovi” svogliati e sconcertati. E in cambio quasi mai ho visto i loro equivalenti nelle donne. Quasi non ce ne sono di “povere vedove”, cioè, signore o perfino anziane che decidano rinchiudersi, che non superino la tristezza, che passino a uno stato quasi vegetativo, di passività e indifferenza. Per quanto la perdita possa essere dolorosa, sono solite disporre di maggiori risorse vitali, maggiore resistenza, maggiore capacità per superare e incontrare incentivi nuovi all’esistenza.

Tra tutti è risaputo che le donne leggono di più, da tanti anni; ma anche vanno più al cinema, al teatro, ai concerti e alle esposizioni, e le sale dove si tengono conferenze sono piene di donne. Escono a passeggiare, a curiosare, si trovano con le loro amiche e viaggiano con loro. Ho conosciuto varie donne che già avevano compiuto i novanta (ricordo soprattutto a María Rosa Alonso, studiosa delle Canarie amica dei miei genitori, che ancora mi scriveva con calligrafia ferma e mente chiara e inquieta a cent’anni) e si lamentava del fatto che le mancasse tempo per tutto quello che voleva fare, o studiare, o scoprire. Parlavano con la stessa impazienza di aumentare le proprie conoscenze che si percepisce nei giovani svegli, mantengono intatti il loro entusiasmo, il loro senso dell’umorismo, la loro capacità di indignarsi di fronte a ciò che trovavano ingiusto, il loro calore, la loro pronta risata, il loro affetto senza pacchianeria. Le donne sono sempre state in larga misura l’elemento civilizzatore, quelle che hanno reso la vita più felice e amabile, e anche più affettuosa, e anche più compassionevole. Non serve ricordare che sono le donne quelle che educano in prima istanza e loro quelle assistono e aiutano di più le persone quando la fine si avvicina. In queste donne generose (ci sono anche quelle che non lo sono per niente), la generosità non ha limiti. Ma, al di sopra di tutto, mantengono in gran misura la giovinezza alla quale molti di noi uomini rinunciamo in quanto l’età ce lo reclama. Siamo pochi quelli a non avere piena coscienza degli anni che vanno passando, per adattarci. A numerose donne questo importa poco, per loro fortuna: tanto sono possedute dalle proprie energie di un tempo che non c’è maniera che le abbandonino. “E ce la passiamo alla grande!”. Che durevole è il sorriso che mi provocò quella frase gioiosa che colsi al volo.

© Javier Marías

https://javiermariasblog.wordpress.com/2015/01/04/la-zona-fantasma-4-de-enero-de-2015-las-mujeres-son-mas-jovenes/

Traduzione di Daniele Pradetto Coccolo

Sulla scia dell’FBI (La zona fantasma, 28 dicembre 2014)

In una recensione americana del libro di Betty Medsger The Burglary: The Discovery of J. Edgar Hoover’s Secret FBI, si racconta di come nel marzo del 1971 un gruppo di giovani attivisti contrari alla Guerra del Vietnam si intrufolò un un piccolo ufficio dell’FBI situato a Media (Pennsylvania), e rubò gli archivi che lì si trovavano. Non sembrarono esaustivi (Media è un centro urbano che non arriva ai diecimila abitanti, però comunque vicina a Filadelfia), ma bastarono affinché si scoprisse pratiche dell’FBI delle quali i cittadini di allora non ne sospettavano l’esistenza, per non dire quelli delle decadi anteriori, quando quella polizia fu oggetto di venerazione e di efficace propaganda nei numerosi film di Hollywood. Oggi praticamente non sorprende, ma quell’organizzazione possedeva una rete di vigilanza che in alcuni casi non aveva nulla da invidiare alla Stasi comunista tedesca (per esempio, in una Università, facevano parte degli “informatori” un ufficiale di sicurezza del campus, il comandante locale della polizia, l’amministratore delle Poste, il segretario generale del college ed una segretaria del centralino telefonico); nientemeno che dal 1956, esisteva una programma chiamato COINTELPRO destinato a denunciare, smantellare e neutralizzare un gran numero di organizzazioni, dalla vecchia e nuova sinistra fino agli attivisti neri, gli antibellicisti, gli indiani americani e molti altri, calunniando i suoi membri e creando loro conflitti, suscitando sospetti sulle loro eterodossie sessuali e le loro irregolarità finanziarie. L’FBI inviava velenose lettere con il fine di distruggere matrimoni; incitava scontri fra bande, concesse lo statuto di “confidenti della polizia” a coloro che altro non erano che gruppi violenti. Alla vigilia del suo viaggio ad Oslo per ricevere il Premio Nobel per la Pace, il Federal Bureau of Investigation tentò di convincere Martin Luther King a suicidarsi (?). I furti in casa di individui spiati e nelle sedi di organizzazioni pro diritti civili facevano parte della quotidianità del’FBI. Si adoperò e riuscì a far cacciare dai loro giornali giornalisti critici, o professori dalle loro Università. Hoover, il famoso ed eterno direttore, utilizzava i suoi giganteschi mezzi per diffamare e ricattare coloro che criticavano le sue attività. Non vacillava a farli accusare di alcolismo, omosessualità (inclinazione alla quale, a quanto pare, egli stesso era ben disposto), tossicodipendenza, adulterio o sfruttamento della prostituzione, senza nessun fondamento nella maggior parte dei casi.

Il problema è che, quando si scoprono e rendono pubbliche queste pratiche, abbiamo tutti la tendenza a pensare che sono cose del passato e rimaniamo abbastanza tranquilli, senza renderci conto che, una volta commesse dai servizi di sicurezza, è quasi impossibile che siano abbandonate. Nemmeno del fatto che oggigiorno le possibilità di vigilanza, spionaggio e diffamazione contro qualsiasi cittadino sono infinitamente maggiori rispetto agli anni settanta, per non dire rispetto agli anni sessanta o cinquanta. I nostri computer e telefonini possono essere ispezionati da chiunque abbia i mezzi adeguati. Pertanto, i nostri movimenti e spostamenti. Senza rendercene conto più di tanto, siamo filmati da telecamere varie volte al giorno. Si conoscono al dettaglio le nostre spese ed entrate, le nostre abitudini, passioni, gusti e vizi, quali sono le nostre amicizie e ciò di cui parliamo, o scriviamo loro. Non voglio dire che continuamente ci spiino, è ovvio (con quale fine?); ma che, se in un momento determinato l’FBI o i suoi equivalenti necessitino o decidano mettersi sulle nostre tracce, lo faranno senza ostacoli e in maniera esaustiva. Il quale permetterebbe loro di tergiversare, manipolare, calunniare, suscitare sospetti verosimili. Con l’aggravante, inoltre, che oggi, con i social network gettando fumo tutto il tempo, non c’è chi possa fermare una balla, un’accusa, un’invenzione. Tutto si spande all’infinito, e a una velocità vertiginosa. Qualunque stupidaggine, o qualunque infamia che ci venga attribuita, rimarrà per sempre nell’immaginario collettivo. Poco importerà se un fatto venga smentito probatoriamente o che uno venga assolto da un giudizio: non si farà caso alla smentita o allo sbaglio e per mezzo mondo perdurerà l’ingiuria. Se nelle epoche passate già era difficile lottare contro tutto questo, soprattutto se chi propalava la diceria era il Governo, oggi è impossibile, perché niente si cancella né annulla del tutto. Per questo dovremmo cercare di non dare credito, inizialmente, a nulla di cattivo che ci viene detto di qualcuno, fino a che non ci siano prove manifeste ed indubitabili. ll quale è un lavoro inutile, già me ne rendo conto, dal momento che all’umanità niente la entusiasma di più che pensare che tutti nascondano delitti o affari sporchi, e goderne scandalizzandosi di loro.

© Javier Marías

https://javiermariasblog.wordpress.com/2014/12/28/la-zona-fantasma-28-de-diciembre-de-2014-en-la-estela-del-fbi/

Traduzione di Daniele Pradetto Coccolo

Dizionario Penale (La zona fantasma, 21 dicembre 2014)

In seguito alla nuova edizione del Dizionario della RAE(1) (la 23ª), si sono scatenate le proteste da parte di collettivi e individui. Alcune, perché non si è soppresso o modificato questa o quell’accezione di una parola; altre, perché se ne sono aggiunte di nuove, essendo queste in vigore tra gli abitanti; altre ancora, perché sono stai incorporati vocaboli qui (Spagna, N.d.T.) mai sentiti, dimenticando che sono frequenti in paesi che condividono con noi (spagnoli, N.d.T.) la lingua: per esempio, “amigovio”(2), il quale, anche se risulta inopportuno dal mio punto di vista, viene usato in Argentina, Messico, Uruguay e Paraguay. Alcune lamentele sono già vecchie e semplicemente vengono riproposte, ogni volta con maggior intolleranza, come spetta ai nostri tempi. Gli ebrei si infuriano perché si mantiene la parola “judiada”(3), che si trova nei classici; i gitani manifestano davanti la sede dell’Accademia esigendo che sparisca l’accezione “trapacero”(4), senza tenere in conto che c’è anche l’accezione lodevole che dice “che è dotato di arte e grazia per accattivarsi le volontà altrui”; i malati di cancro giudicano denigrante il significato seguente: “proliferazione in seno a un gruppo sociale di situazioni o fatti distruttivi”, come nella frase “la corruzione è il cancro della democrazia”; le associazioni di autismo si indignano di fronte a questo: “detto di una persona: chiusa nel suo mondo, coscientemente allontanata dalla società”, come in “Rajoy governa in modo autista”. Dal momento che gli affetti da cretinismo sono meno rispetto ad una volta, non mi risulta che si siano incolleriti per il significato “stupidità, idiozia, mancanza di talento” già longevo. Ma, se cominciamo a essere suscettibili, il numero di offesi potrebbe essere innumerevole.

I frati potrebbero irritarsi perché “frailuno” sia “proprio del frate”, anche se viene segnalato che è un termine dispregiativo; i gesuiti perché “jesuítico” vuole dire: “detto del comportamento: ipocrita, dissimulato”; le lucertole -se potessero- del fatto che la forma mascolina possa essere “ladro del campo” e la femminile “prostituta”; ai ratti del fatto che il loro nome figuri per “persona spregevole”, e lo stesso vale per i cani, con l’aggravante che “cagna” sia anche “puttana”, e lo stesso vale per le mucche(5) inglesi per una delle accezioni di “cow”. Sebbene gli animali non possano, tutto si aggiusterà: sentiremo chiedere vendetta ai loro esaltati “difensori”, che chiederanno l’eliminazione di queste offese. Non entro nelle rivendicazioni femministe (in realtà pacate, la maggior parte) perché troppo abbondati e vetuste.
Viene da chiedersi che cosa questi collettivi e individui furiosi non capiscano di ciò che è così facile da capire. Il DRAE(6) non “sanziona”, non “legalizza”, non “dà il certificato di cittadinanza acquisita”, non “autorizza” ad utilizzare un vocabolo, non segnala ciò che è ammissibile e ciò che non lo è, tra le varie ragioni perché non è in suo potere farlo. La gente parla e scrive come meglio gli piace, e mentre lo fa non le importa minimamente ciò che includa o dica il Dizionario. Questi non “autorizza” né “impedisce”, nemmeno castiga o multa, tanto meno richiama, tutto questo non rientra nelle sue competenze. Il DRAE è neutro, è un mero recipiente, un registro di ciò che gli abitanti decidono utilizzare in maniera libera e spontanea (meglio, di quello che viene usato in quantità maggiore e durevole). Quando un uso si radica, o appare in testi importanti, al Dizionario non rimane altra scelta che farlo suo. Non c’entra se il termine sia osceno, sgradevole, peggiorativo, spregiativo, offensivo o incluso razzista. Se esistono e sono in vigore, non è certo colpa delle Accademie, ma dei parlanti, e ciò che tutti questi collettivi dimenticano è che i parlanti sono liberi nel bene e nel male, e l’ultima cosa che spetta ad un dizionario è comportarsi da censore.

Perché si dovrebbe dare maggior attenzione agli autistici o agli ebrei a discapito dei gesuiti o dei puritani? Questi si sentono offesi per la presenza di “scopare”, “cazzo” o “fica”, che in passato erano assenti. Questo sarebbe accettabile oggi? No, evidentemente: il Dizionario verrebbe etichettato, a ragione, di censore e bigotto. Ed è proprio questo spirito censorio ciò che anima coloro che protestano: ognuno di loro vuole che si sopprima -cioè, si proibisca- i vocaboli che considera offensivi. Se sottolineo quest’ultimo aggettivo è perché ogni lamentoso o indignato parla dal punto di vista della sua soggettività, e visto che queste sono infinite, allo stesso modo lo sarebbero i tagli. Coloro che ingiuriano il Dizionario sono nemici della libertà ed autoritari, aspirano alla proibizione ed all’assoggettamento della parola, ed inoltre credono, erroneamente, che la censura della DRAE porrebbe fine alle accezioni che infastidiscono loro, come se quest’opera fosse una specie di Polizia o di Codice Penale capace di mettere in carcere coloro che la infrangono, coloro che si sono avvalsi di termini non presenti in essa. È così difficile capire quanto appena detto? Il DRAE non impone nulla, non può; nemmeno pone il veto, non può; tutt’al più orienta, guida, raccomanda o sconsiglia. È alla mercé di quello che i parlanti decidono, e questi sono liberi, anche se spiace a molti con vocazione dittatoriale. Un solo esempio innocuo: etimologicamente, avremmo dovuto dire “crocodilo”, e a questo hanno obbedito l’inglese e il francese “crocodile” ed il tedesco “Krokodil”. A spagnoli e italiani ci è venuto voglia di chiamarlo “cocodrilo” e “coccodrillo”, e così è stato e così sarà fino a che le nostre lingue spariranno. Cosa per la quale non manca molto, va detto già che ci siamo, ma questa è un’altra storia.

© Javier Marías

(1) Real Academia Española.

(2) Fusione tra le parole spagnole “amigo”(amico) e “novio” (fidanzato). Persona che mantiene con un’altra persona una relazione di minore compromesso formale che il fidanzamento ufficiale (“noviazgo” in spagnolo).

(3) Cattiveria, carognata. “Judío” in spagnolo significa “ebreo”.

(4) Letteralmente, imbroglione.

(5) Lo stesso vale anche per la lingua italiana con il termine “vacca”. Nella traduzione abbiamo preferito “mucca” perché più comune.

(6) Dizionario della RAE

http://javiermariasblog.wordpress.com/2014/12/21/la-zona-fantasma-21-de-diciembre-de-2014-diccionario-penal/

Traduzione di Daniele Pradetto Coccolo

Sempre tardi e con smemoratezza (La zona fantasma, 14 dicembre 2014)

È saputo che questo sia un paese deliberatamente smemorato, per quello che gli conviene. È anche un paese di estremi, dove molti dei suoi abitanti passano da uno all’altro senza effettuare il percorso, senza che li vediamo spostarsi. Sono in un luogo e di colpo nel luogo opposto, senza spiegazioni, senza evoluzione, senza processo. Furono numerosi i falangisti che di colpo passarono ad essere comunisti, e alcuni di questi tornarono ad essere, poi, repentinamente anticomunisti e a volte di estrema destra. Non sono stati scarsi i castristi acerrimi convertiti per magia in furibondi anticastristi. C’è stato anche chi è stato Vicepresidente di un governante e che poi si è autoproclamato la voce più critica di quello stesso governante (la smemoratezza e lo scambio di estremi lo contagiamo all’America Latina).
Ci sono stati casi in cui sì abbiamo assistito al tragitto, e questo ha dato verosimiglianza al cambio: membri dell’ ETA veramente pentiti (pochi, però qualcuno sì), che almeno non si sono messi al comando di manifestazioni anti – ETA né hanno negato il loro passato: lo hanno assunto, hanno riconosciuto il loro errore, hanno lamentato il danno causato. Però questi casi sono il numero minore: non abbiate dubbi che tra qualche anno vedremo esacerbati indipendentisti catalani di oggi negare che abbiano mai voluto uno Stato sovrano e persino aborrire le esteladas(1). E vedrete come quasi nessuno oserà ricordargli i loro spropositi.
Alla fin fine c’è l’abitudine di raccontare ciò che si vuole e che nulla sia smentito: gli indipendentisti attuali hanno avuto il coraggio di esporre i ritratti di Casals, Vázquez-Montalbán, Candel, Camí o Antoni Gutiérrez insieme al motto “Voto per te” (si sottintendeva; “che sei morto e puoi essere manipolato”). Né Casals (che si firmò sempre Pablo e non Pau), né Montalbán, né Candel né gli altri si può assicurare che siano stati a favore della secessione della Catalogna, piuttosto si intuisce che si sarebbero opposti. Impossibile saperlo. Però la assoluta mancanza di scrupoli degli attuali dirigenti passa sopra tutto questo: siccome non possono protestare per l’uso tendenzioso dei loro volti e nomi, li si converte in accoliti postumi di Mas e Junqueras, con il permesso delle loro rispettive, frivole famiglie.
Non sono però solo gli individui a fare salti acrobatici, ma anche le collettività. Adesso c’è clamore contro la corruzione, ed è bene che sia così. Solo tre anni fa, invece, alla maggior parte degli spagnoli ciò non interessava (basta paragonare i sondaggi sulle “maggiori preoccupazioni” di allora e di adesso). E inoltre non era raro che si ammirasse e si invidiasse il corrotto, il “furbo”, il “malandrino”, e parte della popolazione aspirava a vedersi in una situazione o in un posto che le permettesse di corrompersi e di ottenere un profitto.
Il PP(2) osservò con gran disinvoltura che il fatto che sospettati e persino accusati facessero parte delle loro liste e risultassero eletti veniva a sgravarli. Se la gente li votava nonostante i terribili indizi, ciò significava che li assolveva in anticipo, i giudici dovevano ritirare le loro imputazioni agli acclamati nelle urne. Adesso sento parlare del danno inflitto agli abitanti di Marbella per quel trio folkloristico che ora è in galera, però quegli stessi marbellíes(3) adorarono in massa, per anni, il più folkloristico predecessore Gil y Gil(4), che mai è sembrato integro, onesto, né pulito: aveva già passato del tempo in prigione come responsabile di una catastrofe con numerosi morti. Allora questo era privo di importanza. È molto probabile che i cittadini che oggi gridano “ladri” ai condannati anni fa li acclamassero.
Le contraddizioni non si percepiscono, è un’altra delle nostre caratteristiche. Uno può non rubare nulla né fare la cresta, ma ricevere denaro da Governi da cui ricevere qualunque cosa è già una forma di sporcarsi le mani. A me, almeno, non sembrerebbe accettabile che mi pagassero – come capita ad alcuni che si proclamano “puri” e predicano – una televisione finanziata dal regime iraniano, o il Governo di Chávez, o l’attuale Israele, la Cuba dei Castro (o l’autorità palestina, fra l’altro). L’Iran si sa come tratta le donne e in generale i suoi sottomessi sudditi, il Venezuela di Chávez e oggi di Maduro è una dittatura di fatto: ancora oggi ci sono sfacciati che sostengono che non sia così, che lì si vincano le elezioni, come se queste non fossero controllate e come se non fossero possibili le dittature di despoti votati (Hitler ne è l’esempio classico, anche se non l’unico). Israele da anni devasta e assassina con sproporzione assoluta, e lo stesso fanno i palestinesi (con i loro più modesti mezzi). Questo tipo di corruzione – chi assume uno, chi lo paga, da chi accetta un premio, per chi lavora uno (e quindi a chi beneficia) -, per il momento non esiste per gli spagnoli. Hanno appena scoperto quell’altra, quella più flagrante e tagliente, e temo che sia solo perché soffrono una crisi economica che rende la gente suscettibile. Se non ci fosse, è probabile che la corruzione occuperebbe un irrilevante posto tra le preoccupazioni nazionali, e che molti degli indignati di oggi starebbero facendo la coda per vedere se gli tocca qualche valigetta o bustarella. E può essere che fra parecchi anni si scandalizzino di coloro che mettono il loro talento, propaganda o sapere al servizio di regimi marci, oppressivi, tecnocratici o totalitari.
La Spagna arriva a tutto sempre tardi e con smemoratezza.

© Javier Marías

(1)Bandiera dell’indipendenza catalana, a strisce gialle e rosse con un triangolo blu sulla sinistra.

(2)Partido Popular, partito di centro destra attualmente (2014) al governo in Spagna.

(3)Abitanti di Marbella.

(4)Imprenditore e politico spagnolo.

http://javiermariasblog.wordpress.com/2014/12/14/la-zona-fantasma-14-de-diciembre-de-2014-siempre-tarde-y-con-olvido/

Traduzione di Andrea Rusca

Il Terrore de “Los Austrias” (La zona fantasma, 7 dicembre 2014)

Circa undici mesi fa, in una colonna titolata Noches armadas de Reyes, raccontai di come Arturo Pérez-Reverte avesse preso l’abitudine di regalarmi un’arma ogni Natale. Già lo spiegai in quell’occasione, affinché i numerosi semplicioni non si scandalizzassero, che si tratta di repliche perfette e che le pistole non sparano. (I coltelli sono già un’altra storia ed ho preferito non metterli alla prova, non sia mai che perda un dito giocandoci.) Ed enumerai la collezione da me accumulata: il bel elmetto che indossavano gli inglesi in India, a Isandlwana, nel valico di Jaybar ed in altri luoghi esotici, con il quale in testa mi sorprese una giornalista straniera che non poté non chiedermi con sarcasmo: “Com’è andata oggi la caccia alla tigre?” Avere in casa cappelli che donano così bene fa venire voglia di indossarlo ogni tanto; poi si sbrigano i propri affari -per esempio, scrivere un articolo- e ci si scorda di ciò che si ha in testa, un disastro. La baionetta di Kalashnikov, il pugnale Fairbairn-Sykes, quella della marina americana. E le armi da fuoco: una Colt del 1873, una Webley & Scott del 1915 e, il Natale scorso, una Luger del 1908 che Arturo mi diede nella Real Academia Española e con la quale terrorizzammo i membri più rigidi (ricordo uno che, spaventato -vede cospirazioni da tutte le parti, visto le malevoli nelle quali partecipa-, corse a nascondersi sotto la propria poltrona della Sala Plenaria; non so se pensò che fossimo lì per lui o ci confuse con degli anarchisti di inizio secolo, come se fossimo usciti da un romanzo di Conrad).

Senza dubbio per evitare ulteriori allarmismi ai nostri colleghi, la maggior parte di loro gente vigorosa e durevole ma in un’età nella quale di regola sentono le paure, mi chiamò il Capitano un pomeriggio, mentre io studiavo Sherlock Holmes, come raccontai un paio di domeniche fa. “Sei in casa?, mi chiese. “Ho qualcosa di voluminoso da darti, e non è il caso di portarlo fino all’Accademia. Se sei in casa faccio uno strappo fin lì. Sono dalle tue parti, nella zona de Los Austrias”. Non avevo l’intenzione di muovermi, visto che stavo risolvendo un caso, concretamente quello dell’assassinio del proprio Holmes per mano del suo creatore, Conan Doyle. Così che dopo dieci minuti gli aprii la porta. Gli brillavano gli occhi come se stesse portando un tesoro o avesse appena fatto una scoperta scientifica, e su una spalla portava, effettivamente, qualcosa di grande e non leggero. Dal momento che io ero assorbito da Holmes, speculai prima che aprisse la malconcia borsa di plastica che avvolgeva l’oggetto (probabilmente di contrabbando). A quel punto avevo già compreso che, nonostante la mia colonna di un anno fa, e al fatto che gli avessi pregato che mettesse fine alla sua scalata all’armamento (la collezione mi stava facendo passare per un bellicista sanguinario davanti a coloro che visitano il mio appartamento), non riusciva a smetter di armarmi, giusto nei giorni in cui tutti (anche se solo a parole) desiderano pace e buona volontà e stelle e beatitudine. Temevo si trattasse di un bazooka o di un mortaio. Ma no, con un gesto esperto quello che estrasse dalla borsa fu una mitragliatrice Sten che montò in un attimo e me la passo molto compiaciuto: “Allora, che te ne pare? Una Sten, lo sai già, quella che utilizzavano i commando alleati nella Seconda Guerra Mondiale, quella che lanciavano dagli aerei ai resistenti ed ai partigiani per combattere contro i nazisti, quella che si inceppò nell’attentato a Heydrich”. “Tu sei pazzo”, gli dissi, ma è anche vero che immediatamente gli chiesi che mi spiegasse il suo funzionamento. E dopo poco mi rimproverava: “La tieni male, il problema è che sei mancino…” A me sembrò, al contrario, che fosse un’arma creata per mancini, visto che il voluminoso caricatore si trova a sinistra e per un destrimano deve risultare un impiccio. Poi se ne andò, tanto soddisfatto quanto lo era al suo arrivo: “Raccontaglielo a Tano, morirà d’invidia e saprà maneggiarla. Prestagliela”.
I giorni seguenti, ballonzolando con la Sten tra le braccia, vidi agitazione negli occhi di Aurora, che viene a lavorare in casa tre mattine a settimana. Non credo gli piaccia l’idea della scalata. No so se per timore o per scherzo, si congedò chiamandomi “mio comandante”. Quando salì Mercedes, che lavora altre tre mattine e che, per una serie di ragioni, adesso sa moltissimo di armi, vedendo il pezzo mi spiattellò: “Cosa ci fai con una mitragliatrice smontabile? O meglio, si tratta piuttosto di una pistola mitragliatrice”, preciso con pedanteria. E in seguito mi guardò con preoccupazione profonda: “Cosa sarà la prossima? Un cannone? Ti vedo sulla giusta strada”. Poco dopo venne Carme a visitarmi, che una anno fa mi aveva dato del “Pancho Villa”: “Allora, cosa prevedi di assaltare?”, mi disse trattenendosi la risata. “I cieli, come quelli, o semplicemente La Moncloa? O prima fai una prova con El Rojano? (Pasticceria nella quale, a proposito, sono sempre molto gentili con me.) Il giorno dopo venne un giornalista tedesco molto competente e simpatico, Paul Ingendaay, e non appena vide la Sten alzò le braccia ed esclamò: “Mi arrendo, e mi avvalgo immediatamente della Convenzione di Ginevra”.
Così che vedete: Arturo continua impegnandosi a propiziare il mio discredito di fronte coloro che mi circondano. Non so se mi sto trasformando nel loro terrore o nel loro zimbello. L’unica cosa che mi consola è immaginare come gli intimi del Capitano Alatriste lo debbano vedere; perché se io, senza volerlo, posseggo già l’arsenale menzionato, non voglio nemmeno immaginare che cosa egli abbia in casa. Sicuro che dal tetto penzolano aerei Messerschmitt y Lancaster, come nel Imperial War Museum di Londra, è che la piscina la occupano degli U-Boote, ossia, dei sottomarini.

© Javier Marías

http://javiermariasblog.wordpress.com/2014/12/07/la-zona-fantasma-7-de-diciembre-de-2014-el-terror-de-los-austrias/

Traduzione di Daniele Pradetto Coccolo

Guarda cosa faccio (La zona fantasma, 30 novembre 2014)

Non sapendo la situazione, avrebbe impressionato meno la fotografia che illustrava l’inchiesta di Guillermo Altares su questo giornale (El País, ndt): una marmaglia di soggetti davanti alla Gioconda, nel museo del Louvre. La baraonda è tale che si fa fatica ad individuarli e a contarli, però credo che siano una trentina (di più non ne captava l’obbiettivo, però di sicuro ce n’erano altri), dei quali solo tre si può assicurare che stiano guardando – cercando di guardare – per meglio dire, il piccolo quadro. Guardandolo davvero. Il resto si sta dedicando a fargli stupide foto con i loro stupidi telefoni. Sarebbe stata possibile un’immagine ancor più da brividi o deprimente, che era ciò che raccontava l’inchiesta: quella di una ciurmaglia equivalente che dava le spalle al famoso ritratto per farsi un selfie in cui si vedesse ogni visitante con la pittura nel fondo, come ornamento. Le ultime volte che sono stato in quella sala, due anni fa, il panorama era desolante, però non così tanto. La gente si ammassava davanti alla Gioconda – non ricordo se allora si permetteva che si fotografasse -, mentre sdegnava uno o due altri quadri di Leonardo da Vinci che si trovavano proprio lì, per non parlare delle meraviglie di altri maestri distribuite nel museo. Però almeno la folla non dava le spalle all’oggetto di venerazione superficiale; cioè il “capolavoro” non era diventato un mero scenario, una mera decorazione di quello che realmente importava: sé stessi.

È innegabile che una delle cause di istupidimento del mondo sia la pubblicità: che l’umanità da decadi le sia soggiogata – e a un suo continuo bombardamento – ha portato le sue conseguenze. Molta gente vuole essere sempre più come la gente finta (e cretina) della maggior parte degli spot televisivi, e questi hanno popolarizzato due slogan particolarmente nefasti: “Io c’ero”, e “Questo è un evento storico e irripetibile”. Si considera “evento storico” qualunque stupidata; dall’entrata di una canzonettista in carcere fino alla prima volta che Messi è entrato in campo con i colori della senyera (1). E sì, chiaro, se tutto è “storico ed irripetibile”, lo è anche questo momento banale in cui io scrivo questo articolo, però a chi mai importa una simile insignificanza. Ad ogni individuo che si vanti di “essere stato lì”, sia “lì” il Camp Nou con Messi vestito da bandiera o la caduta del Muro di Berlino nel suo momento, bisognerebbe rispondere con meritata crudeltà: “E allora? Ha avuto Lei qualche influenza? Si sente migliore per aver fatto parte di una massa? Non sa che per televisione milioni di persone hanno visto lo stesso e potrebbero affermare di essere stati lì anche loro, anche se non fosse certo, e raccontarlo probabilmente con maggior dettaglio?” Suppongo che per combattere quest’ultima domanda esistano i selfies: “ecco qui la prova, mi vedete con la Gioconda come ornamento, o con l’Adamo di Michelangelo e il suo dito”. Però chiaro, risulta che la Cappella Sistina riceve attualmente 22.000 turisti diari, e non ci sono mai meno di 2.000 persone lì congregate, una permanente folla. Che cosa importa che Lei sia lì, senza guardare gli affreschi, se la sua presunta “unicità” la condividono migliaia di persone al giorno?

Tutto è strano e contraddittorio oggigiorno. Troppa gente ingenua si è convinta che ciò che carica nei social network (Facebook, Twitter o altri) lo contemplerà tutto il mondo, quando la cosa certa è che passerà inosservata come le sessioni di diapositive a cui un tempo si sottoponevano quattro amici quando i nostri genitori tornavano da un viaggio, o come i commenti che si facevano in bar con i compari abituali. La gente è troppo occupata a caricare le loro foto e lanciando i loro tweet per disturbarsi a vedere o leggere quelli degli altri. Il motto del nostro tempo dovrebbe essere “Ognuno ha le sue manie”, e l’unica mania – e quella di tutti – è la propria persona. “Guarda cosa sto per mangiare”, e mandano foto di un piatto. “Guarda dove sono”, e mandano quella di una discarica o di una porta o della spaventosa statua gigante di una rana nel Paseo de Recoletos (ho già parlato di questo affronto). “Guarda con chi sono”, e lanciano quella di un presentatore o un imitatore in cui si sono imbattuti per strada, “Guarda cosa sto vedendo”, e lì vanno i loro selfies davanti alla Gioconda, proclamando che la possono vedere, ma certamente non guardare.

Tutto questo ricorda i bambini piccoli che hanno bisogno della costante attenzione della madre o del padre. “Mamma, guarda cosa faccio”; “Guarda papà, adesso senza mani”. Il bambino ha bisogno di testimoni per assicurarsi che effettivamente è nel mondo ed esiste (non si è ancora abituato alla novità, e ha bisogno di incessante conferma: è vero che non sono una figurazione, dato che faccio cose e le vedete?). Questa insicurezza iniziale passava, e abbastanza presto. Adesso si ha l’impressione che non passi mai, che le persone richiedano spettatori e specchi di tutte le loro attività, persino delle più volgari. Un altro sintomo del crescente e infinito infantilismo del mondo. Uno si chiede a volte se rimangano molti individui capaci di godere di qualcosa senza essere contemplati nel godimento. Di una passeggiata, di un paesaggio, di un capolavoro pittorico che non sia banalmente celebre, di un edificio o di un angolo in cui uno fissi la vista per conto proprio, senza che una pagina web o una guida glielo abbiano segnalato. Se rimane qualcosa di autonomo e che si apprezzi per ciò che è, e non come ornamento del nostro insaziabile narcisismo.

(1) Bandiera ufficiale della Catalogna, a strisce rosse e gialle

© Javier Marías

http://javiermariasblog.wordpress.com/2014/11/30/la-zona-fantasma-30-de-noviembre-de-2014-mira-lo-que-hago/

Traduzione di Andrea Rusca

Non serve essere Sherlock Holmes (La zona fantasma, 23 novembre 2014)

Per colpa, o meglio grazie a Manuel Rodríguez Rivero, che mi ha coinvolto in un ciclo di conferenze sul romanzo, mi sono ributtato nell’inesauribile mondo di Sherlock Holmes. Tempo fa, ogniqualvolta in un’intervista leggera mi venisse chiesto quale personaggio di finzione avessi voluto essere, rispondevo invariabilmente con il nome del consulting detective di Baker Street, e non credo che oggi la mi risposta sarebbe diversa. Non c’è niente di originale in questo; anzi, io credo che quasi chiunque tra coloro che hanno frequentato le sue avventure, narrate da Watson e scritte da Conan Doyle, vorrebbe essere lui piuttosto che un altro eroe o villano: nonostante le sue tante manie, la sua eccentricità, la sua minacciosa malinconia, la sua sopportabile dipendenza da cocaina, la sua impertinenza, la sua relativa solitudine, la mancanza di storie d’amore (senza sofferenza né nostalgia, sicuramente), la sua freddezza. Ma Holmes, dopotutto, non è disumano, né una mera macchina calcolatrice, come qualche volta dichiarò il suo creatore. Lo vediamo vulnerabile e questo ci porta a volergli bene; lo vediamo allegro spesso, con senso dell’umore e capacità di ridere di sé stesso; e almeno in un’occasione lo vediamo “colpito” da una donna, la donna, come sempre fu per lui Irene Adler, personaggio meravigliosamente raccontato non in un testo ma al cinema, in La vita privata di Sherlock Holmes di Billy Wilder, interpretata dalla dimenticata Genevieve Page.
Quello che si invidia di Holmes è soprattutto la sua intelligenza e la sua perspicacia nel vedere adeguatamente e nel sapere, che è quello a cui in tanti aspiriamo nella vita, soprattutto per ciò riguarda le relazioni con gli altri. Com’è risaputo, il “modello” di Holmes nella realtà fu -se si può parlare di qualcuno- il chirurgo di Edimburgo Joseph Bell, professore di Conan Doyle quando questi studiò medicina. Alla morte di Bell, nel 1911, il New York Times gli dedicò un necrologio intitolato “Sherlock Holmes, l’originale, morto”. Non saprei se triste o felice destino, essere ricordato così. In questo ritratto si recuperava un aneddoto raccontato dal proprio Bell, nel quale si può effettivamente riconoscere Holmes: “Mentre facevo lezione ai miei alunni, una volta venne una persona il cui caso sembrava molto semplice. ‘Senza dubbio, signori’, dissi, ‘fu soldato di un reggimento delle Highlands e probabilmente membro della banda musicale’. Feci notare il dimenio nella sua camminata, caratteristico degli zampognari; e la sua bassa statura suggeriva che, se fosse stato nell’esercito, sarebbe stato in qualità di musicista, ai quali non si richiedeva la stessa statura dei combattenti. Ma risultò essere un semplice calzolaio e che mai in vita sua aveva indossato una divisa. Presi un abbaglio, ma io ero assolutamente convinto di avere ragione, così ordinai a due dei miei aiutanti più forti che lo portassero in una stanza vicina e lo facessero spogliare. Subito scoprii, sotto la parte sinistra del petto, una piccola D azzurra marcata a fuoco, con la quale si stigmatizzava i disertori nella guerra di Crimea e in seguito, sebbene ora non sia più permesso. Per questo motivo l’uomo occultava il suo periodo nell’esercito’.

Sì, chi potrebbe scoprire così tante cose, e a primo colpo d’occhio! Non è facile sapere quello che c’è in serbo per noi, nemmeno dal migliore dei nostri amici. Ma, caspita, in alcune occasioni non è così difficile, e con il tempo si apprende. Per fare esempi attuali, direi che non serve essere Sherlock Holmes per mettere immediatamente al sicuro il portafoglio nel caso ci venissero presentati gli imputati del caso Gürtel Correa y El Bigotes. Per precauzione, non si sa mai. Nemmeno serve essere una lince, credo io, per supporre, non appena gli si è visto l’espressione e l’attitudine, che tra le virtù di Blesa e Bárcenas di sicuro non c’erano la modestia né la solidarietà né la pietà: salta agli occhi che sono individui vanagloriosi, ostili, presuntuosi, per non dire altro. Tra tutti i nostri politici ciechi ed imbranati, o cafoni a più non posso, senza dubbio Esperanza Aguirre risalta come la anti- Sherlock Holmes, sebbene da piccola abbia studiato nell’istituto Britannico. Nominò a cariche importanti una legione di apparenti malfattori vari, si circondò di loro, diede la sua fiducia.
Tanti sono stati (presumibilmente) da sembrare piuttosto che abbia avuto un occhio infallibile per riconoscerli e dar loro potere, come se ogni volta si fosse detta: “Ah, che magnifico imbroglione, lo ingaggio subito”. Ma no; tenne Granados al suo fianco per anni, questi fu il suo braccio destro o sinistro, le permetteva perfino allacciarle il braccialetto; e adesso, all’improvviso, per lei è diventato “questo signore” come se fosse un conoscente remoto. Lo stesso con i presunti López Viejo, Martín Vasco, Sepúlveda, Romero de Tejada ed i suddetti Correa e Bigotes, che le organizzavano le sue kermesse, e tanti altri. Il suo successore Ignacio io non lo vedo più promettente. Dunque, si cerca di intuire, notare, indovinare. Lei no. Si sbaglia, non siamo Holmes né Bell. Ma cosa volete, qualcosa ci deve dirigere. Non riesco a non avere l’impressione che Floriano non sia lungimirante, che Montoro soffrì per mano dei suoi compagni durante l’infanzia, che Rajoy è la sfinge che sembra, che Pablo Iglesias è autoritario e furbo e persona da non fidarsi, che Carme Forcadell rasenta la possessione (non so se dallo spettro di Goffredo il Villoso o da chi), che Cospedal assomiglia ogni giorno di più al ritratto di Dorian Gray. Insisto, sono solo impressioni, e magari mi sbaglio con tutti. Ho già ammesso che, per sfortuna, non sono mai riuscito ad essere Sherlock Holmes.

© Javier Marías

http://javiermariasblog.wordpress.com/2014/11/23/la-zona-fantasma-23-de-noviembre-de-2014-tampoco-hay-que-ser-sherlock-holmes/

Traduzione di Daniele Pradetto Coccolo